La sartoria napoletana, vanto dell’eleganza italiana, è una storia nella storia. Fenomeno di gusto e di eccellenza, la produzione sartoriale partenopea è un solido presidio dello stile che la fluidità della moda non riesce a intaccare. Tra mito e realtà, i sarti dei vicoli di Napoli e delle pendici del Vesuvio si sono imposti a livello mondiale come pietra di paragone e punto di riferimento. Tuttavia, cercando di seguire l’evolversi di quella storia nella storia del costume italiano, si percepisce una lacuna.
Tutti i più autorevoli intenditori, tutta la letteratura dedicata, tutti i blog per appassionati segnalano uno strappo nella stoffa. Pur avendo radici lontane, fino al XIV secolo, i sarti napoletani conobbero un lungo periodo oscuro tra Sei e Settecento. L’Ottocento registrò un timido ritorno alla luce, ma fino al primo Novecento si osserva un ampio taglio buio nel tessuto, rappezzato poi dai grandi nomi che tuttora rendono leggendaria la qualità di tante sartorie napoletane (tutte legate tra loro da rapporti complessi e ciclici di apprendistato, affermazione, trasmissione a nuovi apprendisti). Raffaele Sardonelli e Filippo De Nicola, dopo il 1870, dapprima tagliarono, poi imbastirono, cucirono e, infine, formarono su misura lo stile napoletano.
Velina della lettera spedita a Giuseppe D’Angelo il 22 aprile 1901. Il prezzo indicato è quello praticato anche all’altro sarto dallo stesso cognome.
Ma quel momento storico, dell’Italia appena unita, dell’Italia coloniale, dell’Italia industriale e combattente, è tuttora piuttosto misterioso per quanto riguarda la Napoli dei sarti. Certo, due o tre immortali, tra cui il Caggiula del celebre manuale tecnico de L’arte del taglio (pubblicato nel 1887)…, ma oltre a loro? La vera eruzione della sartoria vesuviana – malgrado la “comunicazione” insista sulla mitologia di remotissime origini – è quasi tutta del secondo Dopoguerra. Ma mezzo secolo prima che i Rubinacci, i Ciardulli, i Kiton, gli Attolini, i Marinella diventassero ciò che sono stati e che sono oggi, doveva già esistere un “mondo” di mani abili di cui, però, si sa poco o nulla. Un sistema ancora quasi ignoto di botteghe, di clienti (anche molto illustri), di rappresentanti, di grossisti, di fornitori, di garzoni pronti a rubare il mestiere e, soprattutto, di artigiani, maestri o meno, e non sempre veri artisti, ma comunque interpreti di un linguaggio stilistico che ancora andava raffinandosi.
L’alba del secolo scorso fu una fase eroica e pioniera che vide il sarto napoletano e il tessitore biellese in stretto contatto. Entrambi, poli geografici, culturali, antropologici della stessa terra, alla ricerca di una dimensione non più solo locale, ma anche globale. Alla ricerca di un’identità riconosciuta e apprezzata nel mondo.
Figurini di moda maschile dalle tavole della raccolta “The Italian-French-Anglo American Fashions” pubblicate a Torino, tra fine Otto e inizio Novecento, da Vittorio Raffignone.
L’Archivio Storico del Lanificio Vitale Barberis Canonico offre un contributo unico per cominciare a delineare quel “mondo”. I suoi copialettere d’inizio Novecento restituiscono quelle relazioni fitte tra la fa fabbrica della valle del Ponzone e le sartorie del golfo di Napoli. Ampie corrispondenze dirette con i clienti e più asciutti messaggi con i rappresentanti rievocano un commercio florido, continuo, strutturato. Il Lanificio Vitale Barberis Canonico rispondeva perfettamente alle richieste di qualità e di quantità che la “piazza” vesuviana esigeva in quella sua vulcanica fase di crescita. Ecco quindi farsi più nitide molte figure dimenticate, anzi del tutto ignorate dalla storiografia di settore. Eppure, i documenti e i campionari le tramandano e non resta che scoprirle.
Via Caracciolo a Napoli in una xilografia pubblicata sulla “Illustrazione Popolare Giornale per le famiglie” del 1899.