Riecco il nostro abate Pluche. Terza puntata (la prima storia e la seconda storia). Come al solito, l’autore dello Spectacle de la nature (1732) introduce gli argomenti con riflessioni tutte sue. In effetti, trattando degli indumenti di cui l’uomo ha necessità e/o volontà per coprirsi e per… per cosa? Comunicare, socializzare, appartenere, apparire? Di tutto un po’, sicuramente.
Si diceva, trattando degli indumenti degli uomini, l’abbé iniziò la sua analisi del vestiario umano partendo, curiosamente, da un accessorio, ossia il cappello. Per carità, il copricapo è un elemento fondamentale del corredo umano, ma in ordine di priorità si poteva scegliere altro, perché la testa può anche restare ignuda, mentre i calzoni o la giacca, per non parlare dell’intimo, pare abbiano una valenza maggiore. Tuttavia, dopo alcune pagine (nelle quali il buon Pluche accenna appena al cotone e, invece, si dilunga sulla seta) compare il tessuto di lana. «I peli degli animali sono senza dubbio la materia la più abbondante, e la più generalmente impiegata a coprir l’uomo. La lanugine del castore, la piuma dello struzzo, il pelo del camello, quello delle capre di Asia e di Africa, la lana della vigogna, ch’è la pecora del Perù, non sono, che una piccolissima parte di questa ricca provvisione e la lana della nostra pecora comune è quella, che in un con le pelli, più sicuramente ci difende dagl’insulti degli elementi».
L’abate Pluche, da Reims ove insegnava e scriveva, aveva una sua visuale del commercio europeo delle materie prime laniere. Una visuale che riassumeva in queste poche righe: «la qualità delle lane varia secondo i paesi con nuove varietà della maniera di prepararle; varietà ancora più grandi dal modo di accompagnarle. Non ha alcuna manifattura di lana, in cui non si dia il primo luogo alla lana di Segovia e quasi generalmente a tutte le lane della Castiglia, dell’Estremadura, dell’Andaluzia; od anche della maggior parte delle provincie della Spagna, ma però in gradi differenti. Il secondo luogo di finezza si dà alle lane d’Inghilterra; il terzo a quelle di Linguadoca, e di Berry. La severità delle leggi, che vietano agli Inglesi il trasporto della loro lana fuori dell’Isola, ed i rischj del contrabbando hanno appoco appoco avvezzato i nostri fabbricatori a far senza di esse». Ǫuindi, Spagna, che vuol dire merino. Gli inglesi allora erano fin troppo gelosi dei loro ovini, mentre la variante Saxon non era ancora stata inventata (nascerà qualche anno più tardi, nel 1765), altrimenti lo zelante Pluche l’avrebbe segnalata.
Pecore “Elettorali” in un’incisione di metà Ottocento. Le Saxon merino sono note anche col nome di “Elettorali” perché furono introdotte in Sassonia dal Principe Elettore Francesco Saverio (1730-1806) che le importò dalla Spagna nel 1765.
Gregge di pecore Saxon Merino.
L’abbé era ben informato anche sui processi di mescolatura delle varie fibre, processi che avvenivano con le stesse finalità e con le stesse modalità di oggi. «Ora impiegano la pura lana di Segovia, ora la uniscono ad altre lane di Spagna. Mescolano l’una, e l’altra con lane di Berry, o di altro fondo. Il che ha portato le nostre fabbriche al punto di poter proporzionare la finezza dei drappi d’inverno, e di estate ai bisogni di tutti gli stati e di non temere in alcun genere il confronto del lavoro dei nostri vicini». Tra quei “vicini” c’erano anche i sudditi del Duca di Savoia, ovvero anche i biellesi, e tra questi di certo anche un Barbero, artigiano settecentesco antenato della Vitale Barberis Canonico odierna.
Al sorprendente Pluche erano noti anche i segreti della preparazione delle lane gregge: «le lane, siano tinte, siano bianche, debbono essere lavate, indi battute sulla graticcia, e aperte, o sciolte a gran colpi di bacchette ed è questo l’apprestamento necessario per pettinarle dipoi, o con olio, o con acqua».
La planche della collezione Vitale Barberis Canonico tratta dallo Spectacle de la Nature che illustra la battitura della lana descritta dall’abate Pluche.
C’era poi l’oliatura. «Le lane tinte, e le bianche in certi casi, non possono mettersi in opera senza essere state bagnate con olio di oliva o con olio di colzat, della quantità del terzo, o del quarto, qualche volta della metà del loro peso. La lana di Spagna, la quale non è stata lavata, che indosso alla pecora, e che conserva il grasso suo naturale, si pettina ordinariamente con acqua, e non già con alcun olio straniero: dopo di averla battuta basta immergerla in una conca di acqua calda, in cui sia sciolto del sapone in liquore». Attenzione: secondo l’autore, il “colzat”, scritto proprio così, «è un piccolo cavolo, il cui seme, che premuto dà molto olio, rassomiglia a quel della rapa».
In attesa di un nuovo prossimo incontro con il dotto Noël-Antoine Pluche, non resta che dare un’ulteriore occhiata alle stampe tratte dai suoi tomi esposte nei corridoi dello stabilimento di Pratrivero.